Articoli sulle appartenenze

95 articoli di Bruno Cancellieri
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Una comunità a cui cerco di appartenere è quella dei saggi. Si tratta di una comunità senza segni esteriori, senza rituali e senza distinzioni. I suoi membri sono accomunati solo dal desiderio di conoscere la natura umana criticamente, cioè mettendo in discussione tutti i saperi tradizionali che la riguardano. In questa comunità lo status di ciascun membro è determinato soltanto dalla misura delle sue conoscenze in tal senso.
Ogni essere umano ha un profondo bisogno di appartenere, ovvero di partecipare attivamente, ad almeno una comunità a lui congeniale, non importa quanto grande. Per “partecipare attivamente” intendo essere coinvolti in interazioni cooperative frequenti con altri membri della stessa comunità, secondo le regole, i rituali, i principi e i valori morali e intellettuali della comunità stessa.
Avere le stesse idee, cognizioni, immaginazioni, gusti, vizi, debolezze, incapacità, paure, fantasie, sogni, illusioni, falsità, errori ecc. ci fa sentire uniti agli altri, normali, sani di mente, degni di essere amati, umani.

Viceversa, avere idee e sentimenti diversi dagli altri ci fa sentire soli, indegni di essere amati, disumani.

Così funziona il super-io, quando non riusciamo a contrastarlo.
Abbiamo bisogno di sentirci uniti da una reciproca approvazione e benevolenza. Scambiarsi gli auguri di buone feste ci illude in tal senso, ma l'illusione dura poche ore e poi ci sentiamo di nuovo disuniti. Per farci sentire davvero uniti, è necessario qualcosa di più sostanziale e concreto, e precisamente la condivisione di certi valori intellettuali, morali ed estetici, cosa impossibile senza l'appartenenza ad una stessa comunità filosofica.
Gli insiemi sociali (gruppi o categorie) sono costrutti mentali, e in quanto tali soggettivi. Essi sono tra loro in relazioni gerarchiche, le quali, per una sorta di proprietà transitiva, vengono assunte da ognuno dei loro appartenenti.

Per esempio, se nella mente di A l'insieme sociale A è superiore all'insieme sociale B, nella mente di A ogni appartenente all'insieme sociale A è superiore rispetto ad ogni appartenente all'insieme sociale B.
Disegno liberamente ispirato dalla teoria "Struttural-dialettica" di Luigi Anepeta.


Le tradizioni sono esercizi e gare di imitazione. L'imitazione (cioè la riproduzione) di forme sociali è un valore "dimostrativo". Infatti, chi meglio imita le forme sociali della comunità di appartenenza dimostra una maggiore integrazione sociale e quindi una maggiore forza e resilienza. Anche le mode, in quanto forme sociali, costituiscono un terreno di competizione nella gara a chi è più "sociale", ovvero più conforme alle caratteristiche della comunità.
Rispondere alla domanda "chi sono" equivale a rispondere alle domande seguenti:

  • A chi/cosa appartengo?
  • Chi/cosa mi appartiene?
  • A chi/cosa non appartengo?
  • Chi/cosa non mi appartiene?
  • Cosa ho fatto?
  • Cosa non ho fatto?
  • Cosa ho subìto?
  • Cosa non ho subìto?
  • Cosa intendo fare?
  • Cosa non intendo fare?
  • Cosa intendo subire?
  • Cosa non intendo subire?
Un rito consiste in una cerimonia di imitazione, di ripetizione di gesti prestabiliti da parte di un gruppo in cui ognuno recita la parte a lui assegnata. Si tratta di una imitazione collettiva in cui al tempo stesso vengono imitati (cioè riprodotti) gesti del passato e del presente, e gli imitatori vengono a loro volta imitati come in un gioco di specchi che si riflettono all'infinito. Un gioco in cui vince chi fa la migliore imitazione, la più autentica, la più fedele.
Ogni cosa che facciamo o ipotizziamo di fare è oggetto non solo di autocensura inconscia, ma è anche usata come criterio di appartenenza e identità sociale. In altre parole, i nostri gesti, le nostre scelte, ci qualificano, ci caratterizzano, ci conferiscono una identità, esprimono nostre appartenenze. Comprare un certo oggetto, usarlo, servirsi di qualcosa, assistere ad un certo evento, abbigliarsi in un certo modo, costituiscono anche affermazioni di identità sociali.
Noi umani abbiamo bisogno di appartenere a cose più grandi e più durature di noi, e di avere conferme di tali appartenenze. Infatti la percezione di non appartenere ad un insieme di ordine superiore (di tipo sociale e/o religioso) è per molti causa di ansia, panico o depressione. D'altra parte il senso di appartenenza che una persona prova può essere più o meno veritiero o illusorio in quanto basato su espressioni e rituali più o meno sinceri e più o meno consistenti.
Ogni comunità è basata sulla condivisione di forme, norme e valori, tra cui una comune definizione dei nemici della comunità stessa. Quanto più basso è il livello di istruzione di una comunità, tanto più semplici sono i criteri con cui vengono definiti i suoi nemici. Uno dei più diffusi è il principio cristiano del "chi non è con me è contro di me", per cui è sufficiente non conformarsi agli usi della comunità per essere automaticamente classificati come suoi nemici.
Il bisogno di comunità (ovvero di condivisione) dà luogo a diversi desideri, come quelli di stare in compagnia di persone simili a sé, indurre gli altri a diventare come se stessi, e diventare come gli altri. In altre parole, il bisogno di comunità è causa del desiderio di imitare gli altri e/o di essere imitati dagli altri nella visione del mondo, nei comportamenti, nei modi di pensare (e di non pensare), nei sentimenti, nelle motivazioni, nelle capacità (e incapacità) e negli aspetti esteriori.
Alla nascita, ogni essere umano viene assegnato ad un certo gruppo sociale che formerà la sua mente e da cui cercherà di essere accettato e stimato il più possibile, conformandosi alle sue regole. Eccezionalmente egli tradirà quel gruppo associandosi con un altro per lui più conveniente o adatto, da cui si farà riformare la mente, e a cui cercherà di adattarsi. Ancora più raramente si renderà mentalmente ed emotivamente indipendente da qualsiasi gruppo e riuscirà a vederli tutti criticamente.
I rituali (cioè le ripetizioni di gesti e di comportamenti canonici tipici di certe classi o di certe comunità) servono soprattutto, o esclusivamente, a confermare (consciamente o inconsciamente) l'appartenenza di chi li pratica alle classi o alle comunità ad essi associate. In tal senso essi riducono l'ansia da non appartenenza o da dubbio di appartenenza, ovvero da carenza di identità sociale, e tale riduzione di ansia può essere fonte di piacere. Questo spiega il successo e la persistenza dei rituali.
Guardando i libri esposti in una grande libreria, penso che ognuno di essi comporti una promessa di felicità, di piacere, o di qualche vantaggio.

Infatti ogni libro sembra dire: leggimi, e starai meglio, ti divertirai, o risolverai dei problemi. Sarai più rispettato dagli altri, sarai più competitivo, imparerai cose utili, saprai come ottenere dagli altri ciò che desideri, apparterrai a una certa comunità, a un certo gruppo, a una certa categoria sociale, leggendomi acquisterai una certa identità sociale, ecc.
Noi umani abbiamo bisogno di aggregarci in qualche modo. Qualsiasi pretesto, ideale, religione, filosofia, credenza, usanza, tradizione, moda, lotta, progetto, obiettivo comune può andar bene, purché permetta un'aggregazione, che è il vero fine, ed è più importante dello scopo apparente dell'aggregazione stessa. Ovviamente in essa si possono assumere ruoli diversi, come quello di pastore, legislatore, guardiano, guerriero, finanziatore, chierichetto, portabandiera, inserviente ecc., a seconda della personalità di ognuno.
L'uso di un pronome possessivo indica sempre un'appartenenza. Ad esempio, dire "la mia famiglia" equivale a dire "la famiglia che mi appartiene" oppure "la famiglia a cui appartengo".

In altre parole, usare un pronome possessivo implica il riconoscimento del fatto che qualcuno o qualcosa appartiene a qualcosa o a qualcuno, e che tali appartenenze significano qualcosa, o implicano qualcosa, vale a dire che implicano certe relazioni, certe proprietà, certi impegni, certe responsabilità, certi privilegi, certo doveri, certi diritti ecc.
Penso, dunque sono. Ciò che sono dipende da ciò che penso e da come lo penso.

Faccio, dunque sono. Ciò che sono dipende da ciò che faccio e da come lo faccio.

Sento, dunque sono. Ciò che sono dipende da ciò che sento e da come lo sento.

Appartengo, dunque sono. Ciò che sono dipende da ciò a cui appartengo e da come vi appartengo.

Possiedo, dunque sono. Ciò che sono dipende da ciò che possiedo e da come lo possiedo.

Pensare, fare, sentire, appartenere, possedere sono processi interdipendenti e costituiscono l'essere.
Per certe persone, partecipare ad un viaggio organizzato soddisfa il bisogno di far parte di qualcosa, di giocare ad un gioco socialmente approvato, vivere un'esperienza insieme ad altre persone, comprare qualcosa da raccontare, confermare la propria appartenenza ad una categoria dignitosa, distrarsi dai problemi che non si ha il coraggio o la capacità di affrontare e soprattutto evitare la solitudine. La solitudine è censurata. Le persone sole sono imprevedibili e misteriose, e perciò sospettate di invidia e cattive intenzioni verso coloro che soli non sono.
Suppongo che il cervello umano sia predisposto geneticamente a credere in qualche divinità e ad aggregarsi in nome di qualche sacralità. Forse questa disposizione ha costituito un vantaggio evolutivo. Ma non è detto che oggi, con lo sviluppo della cultura che c'è stato, tale tendenza sia ancora vantaggiosa per la specie. Potrebbe essere la sua rovina. Sicuramente è una tendenza vantaggiosa per coloro che la sfruttano. Come il sobrio può avere la meglio sull'ubriaco, così chi è libero da credenze può avere la meglio sui credenti, in quanto individui meno liberi.
Ogni umano "normale" ha bisogno di appartenere (o di credere di appartenere) ad una comunità (reale o ideale) di persone che condividono certe idee e certi rituali (non importa se le idee siano vere o false, realistiche o illusorie).
 
Le relazioni e le interazioni umane sono infatti regolate da idee e rituali comuni, forme di riferimento senza le quali i quali i rapporti umani sarebbero caotici e violenti.
 
Dal bisogno di appartenere scaturisce il piacere indotto dalla conferma dell'appartenenza, l'ansia e la paura dell'isolamento sociale, e il dolore dell'esclusione.
L’identità sociale di un essere umano è definita dalla sue appartenenze passive e attive, ovvero dai gruppi e dalla categorie a cui esso appartiene, e dalle cose e dalle persone che ad esso appartengono.

Una volta stabilite le proprie appartenenze, un essere umano le confronta con quelle altrui, in quanto si chiede, rispetto ad ogni altro umano: quali appartenenze abbiamo in comune e quali non in comune? Quali nostre appartenenze sono compatibili e quali incompatibili o conflittuali?

Infatti un rapporto sociale dipende dalla condivisione di certe appartenenze dei contraenti.
L'esistenza di una comunità e l'appartenenza ad essa si manifestano attraverso la celebrazione dei riti che la caratterizzano. L'albero di Natale è uno di essi. Lo si fa per dimostrare (inconsciamente) a se stessi e agli altri di appartenere ad una comunità che a Natale fa l'albero di Natale. È un rito di appartenenza che rassicura chi lo fa e chi lo guarda, perché una persona che non appartiene a nessuna comunità (ed è quindi moralmente libera) fa paura a tutti, anche alla persona stessa.
Siamo tutti terrorizzati o depressi all'idea di non appartenere a nessuna comunità.
Il comportamento di un essere umano ricalca, ovvero imita, certi modelli che costituiscono i ruoli caratteristici di certi tipi di comunità. In altre parole, ogni individuo vive come il personaggio di un dramma di cui interpreta il copione, ovvero come il giocatore di un gioco di società, gioco di cui conosce e rispetta le regole.

Infatti non siamo liberi di essere né di fare ciò che vogliamo, ma il nostro comportamento deve conformarsi a certi modelli condivisi (ovvero "in comune") con altri membri della comunità a cui desideriamo o abbiamo bisogno di appartenere.
Ogni umano ha bisogno di essere accettato come membro di una comunità per lui congeniale, in un ruolo e un livello gerarchico corrispondenti alla propria autostima.

Quando la stima ottenuta da una persona è inferiore alla propria autostima, si genera un'ostilità tra colui che si sente sottostimato e il sottostimatore, ostilità che comporta una crescente svalutazione reciproca.

Se la discordanza di valutazioni non viene risolta, eventualmente con l'intervento di altre persone, colui che si sente sottostimato può essere indotto ad abbandonare la comunità da cui desiderava essere accettato.
Chi è (o sente di essere) parte di un insieme tende a credere (consciamente o inconsciamente) di essere l'insieme stesso. Infatti l'inconscio, a mio avviso, non riesce a distinguere un insieme dalle singole parti che lo compongono, cioè non riesce a dividere un insieme in parti autonome. Tale divisione è possibile solo alla ragione cosciente. È così che a volte qualcuno crede in cuore suo di essere il mondo intero, o Dio stesso, e gode la libido della fusione mistica con il tutto.
La società è un ecosistema dove ogni essere umano vorrebbe avere un posto adatto al proprio temperamento, al proprio carattere, ai propri limiti e alle proprie capacità, per poter soddisfare i propri bisogni senza troppe difficoltà.

Questo desiderio può essere soddisfatto solo se gli altri ce lo permettono e se noi lo permettiamo agli altri, perché la società non è un ente esterno, ma è costituita da ognuno di noi.

In ogni caso, penso che essere accettati dagli altri costituisca un bisogno primario da cui dipende la soddisfazione di tutti gli altri bisogni.

Le manifestazioni pubbliche dei negazionisti del Covid in tutto il mondo, anche nei paesi più sviluppati e democratici, sono una evidente dimostrazione del fatto che gli idioti non sono rari e isolati, ma si aggregano in macroscopiche comunità di loro simili, comunità che rafforzano e rendono irrimediabile la propria idiozia.


Nei dialoghi e nelle conversazioni, la società, con le sue forme, i suoi linguaggi e le sue regole, è sempre presente come riferimento e come contesto che dà significato e valore a tutto ciò che viene detto.

D'altra parte, ciò che viene detto serve anche a dimostrare e a confermare l'appartenenza e la conformità dei parlanti alla società in certi ranghi e in certi ruoli.

In altre parole, noi parliamo non solo per raccontare fatti reali o presunti che ci riguardano in quanto membri di una società, ma, al tempo stesso, per confermare la nostra identità e la nostra dignità sociale.
Di ogni cosa o persona dovremmo chiederci non cosa sia, ma a quali insiemi (sia fisici che logici) essa appartenga, e quali cose le appartengano o siano in essa contenute. Infatti il verbo essere non significa nulla, mentre il verbo appartenere implica tante serie di significati quanti sono gli insiemi di appartenenza e le cose appartenute.

Tra l'altro, ogni appartenenza implica certi ruoli, certe funzioni, certe interazioni e certe posizioni gerarchiche in termini di poteri.

Ogni volta che sia possibile dovremmo pertanto sostituire il verbo essere con il verbo appartenere, sia in ciò che diciamo, sia in ciò che pensiamo.
Quando siamo davanti ad un altro essere umano siamo incapaci di ragionare freddamente. E' come se vedessimo un essere sacro e incantatore. Siamo presi dall'illusione di essere simili nei sentimenti e nelle conoscenze, di ragionare nello stesso modo, di appartenere allo stesso organismo (l'umanità), e ci sentiamo obbligati a comportarci "come si deve" (ovvero non come decidiamo noi) da una forza profonda, sacra, involontaria.

Siamo così irretiti che non ci rendiamo conto che siamo tutti diversi e che ognuno di noi ha criteri di interazione diversi da quelli altrui, per cui non riusciamo a comunicare e interagire in modo mutuamente soddisfacente.
A mio parere, una delle caratteristiche che distinguono l'uomo dagli altri animali è la capacità di provare sensi di colpa, i quali possono essere più o meno giustificati e più o meno consci o inconsci.

I sensi di colpa possono essere suddivisi in due categorie: quelli verso Dio e quelli verso gli altri (ovvero verso la comunità di appartenenza o persone particolari). I primi sono dovuti soprattutto a insegnamenti cristiani; i secondi, quando non sono giustificati, sono dovuti soprattutto a insegnamenti di genitori conformisti e/o moralisti.

Quando i sensi di colpa sono inconsci, è impossibile capire in quale misura essi siano giustificati.
A mio parere, per essere felici è necessaria, oltre la soddisfazione dei bisogni fisici, l'interazione con un certo numero di persone a noi congeniali. Per questo è necessario "avere" certe risorse materiali, economiche, fisiche, intellettuali ed emotive. A tal fine occorre appartenere a certe comunità, cioè "essere" certe persone, requisito che, a sua volta, implica certe interazioni.

"Interagire" è dunque l'obiettivo finale (ma, anche quello iniziale) di una vita felice. "Avere" ed "essere" sono infatti obiettivi intermedi, cioè mezzi e strumenti, per raggiungere il vero fine, che è, appunto, l'interazione sociale.

Auguriamoci dunque "buone interazioni!".
Fin da quando ero bambino, ho sempre avuto una sensazione di precarietà sociale, ovvero l'idea che, se gli altri sapessero cosa penso di loro e che sentimenti provo nei loro confronti, mi escluderebbero dalla loro cerchia.

Questa idea mi ha mantenuto in uno stato di allerta, e mi ha indotto ad offrire agli altri un'immagine accettabile (e a tale scopo mistificata) di me, dei miei sentimenti, delle mie idee, delle mie motivazioni, della mia storia e del mio comportamento abituale.

Questa mistificazione è stata, e continua ad essere, a sua volta, un'ulteriore fonte di apprensione per il rischio che venga scoperta.

Di conseguenza, tendo prudentemente a nascondere la parte più autentica di me.
Per soddisfare i propri bisogni bisogna appartenere a uno o più gruppi e categorie e giocare ai giochi da essi previsti.

Ogni gruppo stabilisce le categorie a cui si può appartenere e, per ciascuna categoria, i crediti e i debiti di appartenenza e i giochi attraverso i quali i bisogni possono essere soddisfatti.

Per appartenere ad un gruppo e/o categoria occorre avere un certo numero positivo di crediti di appartenenza.

Ogni gioco stabilisce i ruoli dei giocatori e cosa si deve fare, non si deve fare e si può fare durante il gioco.

Qualunque interazione al di fuori di un gioco previsto dalle proprie appartenenze e convenuto (implicitamente o negoziato) costituisce una violenza e un debito di appartenenza.
Per ogni persona che si incontra sarebbe opportuno chiedersi: cosa ci unisce? Cosa ci divide? Cosa ci assimila? Cosa ci differenzia? Rispondere a queste domande è difficile e complesso. Tra le cose che uniscono o dividono, assimilano o differenziano due umani ci possono essere appartenenze, gusti, disgusti, principi morali e filosofici, esperienze, linguaggi, culture, conoscenze, credenze, affinità e diversità di temperamento e di carattere, grado di intelligenza e di sensibilità, idee e alleanze politiche, colpe, meriti, divergenze di vedute su meriti e demeriti altrui, valori e disvalori, criteri di giustizia, preferenze, tradizioni, amici, nemici, parentele, interessi, obiettivi, progetti, passioni, desideri, ruoli, responsabilità, problemi, fortune, sfortune ecc.
Se milioni di persone fanno le stesse cose allo stesso tempo, non è per caso e nemmeno per libera scelta, ma per l'effetto di forze consce o inconsce che spingono la maggior parte delle persone a imitare il comportamento più comune praticato nella propria comunità di appartenenza e a conformarsi ad esso. Se si chiede ad una persona perché fa quello che fanno tanti altri, essa con molta probabilità risponderà che lo fa perché lo ritiene cosa buona, ovvero perché le piace farlo, come se fosse una sua libera scelta. In realtà si tratta di un condizionamento reciproco dettato dal bisogno di appartenenza, che produce al tempo stesso il piacere di appartenere e la paura di non appartenere ad una comunità caratterizzata dal comportarsi in un certo modo, più o meno rituale.
Ciò che gli esseri umani più spesso si scambiano sono gesti, ovvero parole e cortesie, come auguri di buon qualcosa, sorrisi, inchini, precedenze, offerte di piccole cose da bere o mangiare, complimenti, cenni di assenso, strette di mano, pacche sulle spalle, abbracci ecc.

Questi gesti non sono casuali, né creativi, ma rituali e corrispondono a forme tipiche della comunità a cui gli interessati appartengono. Il loro unico scopo è un reciproco riconoscimento di appartenenza all'umanità e a una certa comunità, riconoscimento di cui l'uomo ha un forte e profondo bisogno e in mancanza del quale prova un angoscioso senso di isolamento.

Al di fuori di tale scopo e significato, tali gesti sono normalmente vuoti, inutili, improduttivi, insensati, ripetitivi.
Tra due entità (cose, idee o persone)  A e B sono possibili solo due tipi di relazione: di trasferimento e di appartenenza.

Le relazioni di trasferimento consistono nel trasferimento di certe entità terze da A verso B e/o da B verso A. Le entità trasferite possono essere fisiche o logiche (cioè, materiali o immateriali), come ad esempio oggetti, sostanze, titoli finanziari, servizi, informazioni ecc.

Le relazioni di appartenenza possono essere di due sotto-tipi: appartenenza complementare (in cui A appartiene a B o B appartiene ad A) e appartenenza comune (in cui sia A che B appartengono ad una terza entità C, oppure A e B possiedono in comune (cioè condividono) l’entità C.
Nella società umana, competizione e cooperazione sono intimamente connesse nel senso che l'una è funzionale all'altra. Infatti si compete per cooperare e si coopera per competere.

Vincere insieme è l'obiettivo fondamentale, più o meno consapevole o inconsapevole, per molti inconfessabile, del comportamento sociale. Infatti, in questa competizione di tutti contro tutti, sia essa viziosa o virtuosa, ognuno cerca gli alleati più competitivi che può permettersi data la propria competitività.

Inoltre, ognuno, assistendo alla competizione tra terzi, prende posizione, come fanno i tifosi sportivi, per la parte che reputa più competitiva, o più affine alla propria condizione e/o identità di classe sociale.
Appartenere ad un insieme implica avere un certo ruolo nell’insieme stesso. Intendo dire che si può appartenere ad un insieme in vari modi, cioè assumendo vari ruoli.

Di conseguenza, il bisogno o il desiderio di appartenere ad un certo insieme (come, ad esempio, un gruppo, un’organizzazione, una comunità) è condizionato dal ruolo che si vorrebbe avere in quell’insieme. In altre parole, certi ruoli sono considerati accettabili, altri inaccettabili, da chi aspira ad una certa appartenenza. D’altra parte ogni ruolo implica una certa posizione gerarchica.

Conviene dunque chiederci non solo a quali insiemi una persona desidera appartenere o pensa di appartenere, ma anche in quali ruoli e in quali possibili posizioni gerarchiche.
Due persone possono essere in conflitto come conseguenza di un presunto conflitto tra gli insiemi sociali a cui esse presumono di appartenere.

Per esempio, prendiamo due persone, A e B. A presume di appartenere alla categoria degli "operai", e presume che B appartenga alla categoria dei "padroni". B presume di appartenere alla categoria dei "padroni", e presume che A appartenga alla categoria degli "operai".

A e B presumono che le categorie "padroni" e "operai" siano in guerra tra di loro per la supremazia. Di conseguenza A e B si comportano reciprocamente come nemici e si combattono per la supremazia in quanto rappresentanti degli insiemi sociali ai quali presumono di appartenere.

Per concludere, i conflitti sono spesso causati da presupposizioni. Diceva infatti Gregory Bateson: "La scienza, come l'arte, la religione, il commercio, la guerra e perfino il sonno, è basata su presupposizioni."
Ogni umano è impegnato (consciamente o inconsciamente) nel gioco sociale. Lo è in ogni momento e in ogni luogo. La posta in gioco è l'appartenenza e l'interazione sociale migliore possibile, ovvero i partner migliori possibile, e i ruoli migliori possibile, che l'individuo si può permettere date le proprie risorse e i propri limiti.

È un gioco competitivo, perché non tutti possono avere uno stesso partner, e i partner possibili non hanno tutti le stesse qualità e le stesse risorse.

Il gioco sociale include vari giochi, tra cui il gioco dello status (the status game), e i giochi culturali, per cui, all'interno di ogni comunità o categoria sociale, vengono condivise le forme culturali (estetiche, etiche, economiche, politiche ecc.) tipiche di quella comunità o categoria.

Il gioco sociale non è opzionale, ma è indispensabile per la sopravvivenza e per la salute mentale di ogni essere umano.
Un grande negozio di libri e giornali, come quelli si trovano negli aeroporti, è lo specchio della cultura di una società e un osservatorio di sociologia. Vi sono esposti, in un apposito reparto, i libri più venduti, così che siano acquistati ancor più facilmente da coloro che si sentono a loro agio seguendo i leader di successo piuttosto che quelli ancora sconosciuti, che, del resto, non saprebbero riconoscere.

Vi sono poi i reparti dedicati ai generi standard più diversi, in modo che ognuno possa trovare quello che meglio lo rappresenta e lo valorizza.

Acquistare un libro o giornale di un certo genere, prima che a informare, serve a confermare la propria appartenenza ad un certo gruppo o categoria di persone. Secondariamente, serve ad informarsi su ciò che è in voga in quel gruppo o categoria, in modo da essere sempre al corrente e potersi conformare ai relativi criteri.
L'uomo ha continuamente, geneticamente, bisogno di confermare la sua appartenenza ad una comunità, a causa dell'interdipendenza della nostra specie.

Affinché la conferma di appartenenza si concretizzi, è necessario che l'individuo imiti o riproduca ripetutamente di fronte agli altri le forme caratteristiche della comunità stessa, cioè quelle che permettono di riconoscerla e la distinguono dalle altre.

Per tale motivo l'uomo tende a fare le stesse cose che fanno gli altri membri della comunità a cui sente di appartenere, (modulate secondo ruoli predefiniti) indipendentemente dalla utilità pratica e razionalità dei gesti sociali imitati e riprodotti.

L'appartenenza ad una comunità è infatti, per l'inconscio,  una cosa "sacra", e il sacro non si discute né si analizza razionalmente, altrimenti lo si dissacra. Al sacro si obbedisce ciecamente, nel sacro di ha fede, il sacro si può e si deve solo amare e temere.
Praticare con altre persone un rito o un rituale sociale grande (come ad esempio una messa o un evento sportivo) o piccolo (come ad esempio un semplice scambio di saluti o di auguri) è importante per un essere umano, perché conferma (consciamente o inconsciamente) la propria appartenenza ad una certa comunità, cioè ad una comunità caratterizzata dal fatto che in essa si praticano riti e rituali di un certo genere.

Praticare un rituale è dunque un modo per soddisfare (in modo reale, fittizio o illusorio) il bisogno di appartenenza e di integrazione sociale, uno dei bisogni più forti e profondi per un essere umano.

Pertanto si può affermare che l'uomo ha bisogno di rituali, senza i quali la sua appartenenza sociale sarebbe sempre incerta, e tale incertezza causa di ansia.

Pertanto suppongo che il piacere associato alla pratica di un rituale sia dovuto ad una diminuzione dell'ansia da dubbio di appartenenza sociale.
La quantità di denaro che si è posseduto, che si possiede e che si cerca e spera di possedere sono tra i principali costituenti dell'identità, del ruolo e dell'appartenenza sociale di un individuo. Si può dire infatti che la società sia regolata dal possesso di denaro. Il denaro conferisce potere e rispettabilità, e questi a loro volta facilitano l'ottenimento di denaro in un circolo virtuoso, così come la scarsità di denaro dà luogo a scarsità di potere e di rispettabilità in un circolo vizioso.

Spesso l'attaccamento al denaro è oggetto di censura morale e per questo viene relegata nell'inconscio, dove agisce in modo insidioso e dissimulato, sotto copertura. Siamo tutti schiavi del denaro, sia chi lo possiede che chi non lo possiede, poiché dal suo possesso o privazione dipendono la nostra identità e appartenenza sociale ovvero gli elementi fondanti della nostra psiche. Ognuno è (anche) il denaro che possiede.
Ognuno di noi ha in testa un particolare "clan" (cioè una comunità interiore di appartenenza) ovvero una struttura sociale o comunità ideale che condiziona il nostro comportamento come una gabbia mentale, con i suoi obblighi e i suoi tabù, e l'imperativo categorico di non essere mai indegni del clan stesso.

Questo clan interiore si forma quando siamo bambini, attraverso l'educazione che riceviamo e le esperienze sociali che viviamo. Esso contiene forme, norme, linguaggi, valori, obblighi, divieti, margini di libertà, ruoli, ranghi, e strutture sociali che ci consentono di interagire con gli altri in modo "regolato" ovvero non completamente libero, al fine della conservazione del clan stesso e della cooperazione tra i suoi membri.

Il Super-io freudiano è l'agente inconscio del clan, che provvede a punire (tramite ansia, angoscia, panico ecc.) qualunque comportamento suscettibile di causare l'emarginazione del soggetto dal clan stesso.
Si ha un'appartenenza quando un'entità è parte di un insieme più grande dell'entità stessa.

Ogni appartenenza implica certe proprietà, qualità, quantità e funzioni, o ruoli.

Ogni associazione, ogni collegamento, ogni relazione tra entità implica delle appartenenze. Infatti ogni entità in relazione con un altra appartiene alla relazione che le lega, con un certo ruolo o funzione.

Un'appartenenza può essere reale (come per parti di una macchina o di un organismo) o ideale (come nella mente che osserva certe entità).

Ogni idea appartiene a uno o più insiemi di idee, e ogni persona appartiene a uno o più insiemi di persone.

Ogni singola persona, ogni insieme di persone, appartengono ad un certo insieme di idee nella mente che le osserva.

Per un essere umano un'appartenenza può essere oggetto di bisogno, desiderio, rigetto o paura.

Un essere umano non può sopravvivere né soddisfare i suoi bisogni senza appartenere a qualche insieme sociale.